Autostrada Milano Venezia, venerdì 7 febbraio ore 18.30.
Come tutti i giorni un enorme serpentone di auto si incolonna per uscire dall’operosa città lombarda verso i dormitori.
Una lunga colonna tutti i giorni, escluso il venerdì, perché per l’inizio del fine settimana è notoriamente peggio, e servirebbe un neologismo, un superlativo assoluto per definire la coda del venerdì.
La Milano dei Brambilla, “dell’ape” con il Campari e dei cummenda il venerdì pomeriggio si muove, sempre in un’unica direzione. Chi ha la “fabrichetta” va verso la seconda casa, mentre chi ci lavora, nella “fabrichetta”, va verso la propria unica casa, fuori dal proibitivo centro città.
Luca Carlin non è né l’una né l’altra cosa. Luca è un chirurgo plastico, uno bravo, uno di quelli che a Milano ha trovato la sua piccola miniera d’oro alzando culi e modellando tette. Luca è uno che lotta perennemente contro le leggi fisiche della gravità e che spesso, ma non sempre, vince.
Luca ha sempre voluto fare il dottore, fin da piccolo. Oddio, fin dall’inizio giocare al dottore aveva i suoi vantaggi, soprattutto quando doveva “visitare” pazienti come Giulia, la biondina del terzo banco di cui era perdutamente innamorato dalla prima elementare. Con il passare degli anni capì che quei glutei sodi che tanto amava palpeggiare non sarebbero durati in eterno, quindi decise seriamente di imparare a conservare i capolavori del buon Dio.
Si definiva così il dott. Luca Carlin: primo restauratore delle opere del divino.
Esuberante, bello di natura, vanitoso e incredibilmente sicuro di sé, aveva abbandonato Padova subito dopo la laurea per iniziare una nuova vita nella mecca della chirurgia plastica: la clinica Thomas Berger di Milano.
Il primario della clinica, più spietato dell’ispettore Callagan, aveva individuato subito in lui il suo degno e futuro erede, lusingandolo e plasmandolo a suo piacimento come il Creatore con i primi abitanti del giardino dell’Eden:
“Vedi Luca, quando una donna entra nella nostra clinica, spera in un miracolo. Tolto il buon Dio che non ha sicuramente tempo di rimettere mano ai suoi vecchi lavori, l’unica speranza per loro siamo noi. Ma noi, a differenza del padre eterno costiamo caro, molto caro. Siamo i migliori, noi siamo l’officina autorizzata dal creatore e la qualità ha un costo, sempre”.
Un semi delirio di onnipotenza che in breve aveva fatto dimenticare al dott. Carlin tutto il resto. Il suo spropositato conto in banca gli concedeva ogni genere di lusso, dall’attico vista duomo ai vestiti firmati alle auto di lusso. Luca possedeva tutto, o almeno così credeva fino a quel giorno.
“mamma cell.”
Quando arrivò quella telefonata, il bel dottore non si aspettava di certo che la sua vita stava per subire una svolta epocale.
O forse il suo sesto senso lo percepì, tanto che prima di decidersi a rispondere lasciò che il telefono vibrasse parecchio, al punto che fu la cliente che aveva dinnanzi ad invitarlo ad interrompere quell’insistente ronzio:
“mamma, che c’è, sto lavorando.”
“Luca, il nonno sta male, ha la febbre.”
“beh… lo dici a me! Chiama il medico”.
“Luca, tu sei un medico, il nonno vuole solo te.”
“Mamma, sono un chirurgo plastico, rifaccio nasi storti e tette cadenti, non curo le influenze.”
La cliente a seno nudo che Luca aveva dinnanzi dimostrò un segno di evidente fastidio a quell’affermazione che inconsciamente la chiamava in causa.
Luca se ne accorse e cercò di salvare il salvabile con una quanto mai contorta espressione del volto che nell’articolato linguaggio universale delle comunicazioni facciali significava qualcosa tipo: “Non sto assolutissimamente pensando anche solo per un istante che la cosa sia in un qualche modo rivolta a lei.”
“Mamma, ora ho gente, non posso rimanere al telefono, chiama il medico, va bene?”
“Tuo nonno vuole solo te. Continua a ripetere che glielo devi, ti ha fatto studiare con i soldi della sua pensione.”
La signora Branciforti, vedova Carlin aveva calato l’asso.
Dopo la morte prematura del marito, suo padre e nonno di Luca era stato per entrambi l’ancora di salvezza:
“Nipote mio, tu sei destinato a grandi cose e finirai gli studi costi quello che costi. Ho una buona pensione e mi basta poco per vivere, ci penserò io a pagare l’università”.
E così fece, fino all’ultima rata.
“Va bene mamma, allora devi dire al nonno che venerdì sera torno a casa, va bene? Ne approfitterò per fare qualche visita in zona. Tienigli controllata la temperatura e dagli un antipiretico solo se supera i 38°. Adesso ti saluto, ciao.”
Mentre maneggiava con grazia quel flaccido seno il pensiero del dottor Carlin era da tutt’altra parte. Si immaginava già il rientro verso Padova, di venerdì sera:
“Sarà un incubo peggiore di palpeggiare queste due vecchie tette.”
Ma questo lo pensò solamente.
Capitolo 2
“È sempre così questa maledetta strada, si parte da Milano in coda e fino a Bergamo si rimane in coda, e tutto per andare a vedere come sta un vecchio cocciuto che ha fatto la guerra e che è forte come un mulo.”
Il navigatore della macchina continuava ad aumentare il tempo di percorrenza. Ancora tre ore. Luca l’aveva impostato solo per scommessa e per avere la compagnia della sensuale voce femminile registrata, non certo per un’utilità.
Il buon dottore, quelle sempre più rare volte che tornava al suo paese natale, non perdeva occasione di mettere alla prova il suo navigatore:
“OK google, portami a Vò Euganeo” aveva detto anche questa volta con voce chiara e squillante, quasi certo di sentirsi rispondere:
“Non ho capito… dove vuoi andare?”
Una domanda retorica dalla risposta certa. Come la strega cattiva delle favole quando interrogava lo specchio magico, anche questa domanda aveva sempre la medesima risposta. Luca lo sapeva e si divertiva a rimproverare l’oggetto come fosse una persona:
“Aggiornati Google… va bene dai, portami a Padova”.
Ed invece, questa volta, ecco la sorpresa:
“Vò Euganeo… andiamo.”
Stavolta lo specchio aveva risposto diversamente, era arrivata la sua Biancaneve.
Luca era nato e aveva vissuto tutta la sua adolescenza a Vò Euganeo, in quel paese all’ombra dei colli Euganei con poche centinaia di anime, tutte amiche. Quando si laureò ne parlò il parroco sul pulpito, il consiglio comunale e pure il bollettino settimanale della parrocchia gli dedicarono due righe, giusto due, prima del defunto della settimana e subito dopo l’annuncio del matrimonio del salumiere. Luca era il primo chirurgo estetico del paese, il bel dottore lo chiamavano. Ma l’idillio comunale durò poco, a nemmeno un mese dalla laurea arrivò la telefonata da Milano: “dottor Carlin, abbiamo un lavoro per lei. Ci risentiamo domani, prendere o lasciare.”
Luca aveva preso.
Abbandonò la vita di paese, la famiglia, gli amici, alla ricerca di una felicità che sperava di trovare nella metropoli lombarda.
Erano ormai le dieci passate quando la Mercedes imboccò la stretta strada sterrata che portava alla casa colonica dove Luca era cresciuto. Abbassò il finestrino e respirò a pieni polmoni l’aria umida e fredda dei primi giorni di febbraio. Quell’odore inconfondibile era solo di casa sua. Luca non avrebbe saputo descriverlo, sapeva di terra, di erba umida e di libertà. Ecco, era proprio questo che non sapeva descrivere, quel terribile profumo di libertà che gli dava una profonda malinconia e un odioso senso di nostalgia che diventava fisico, un peso sullo stomaco ed improvvisamente gli fu chiaro perché cercava di tornare il meno possibile.
La Mercedes si fermò davanti all’ingresso, Luca spense l’auto e tutto attorno calò il buio assoluto della campagna, così diversa da Milano.
Quel silenzio e l’oscurità durarono pochi secondi, poi si accese la luce dell’ingresso e si aprì la porta.
Capitolo 3
“Luca, sei arrivato finalmente, il nonno continua a chiedere di te.”
Il bel dottore sbuffò e senza parlare si avvicinò alla madre per abbracciarla:
“Buonasera anche a te. Sì, ho fatto un buon viaggio grazie..”
Un’ironia pungente, forse troppo per la donna che non capì:
“Bene, mi fa piacere, dai entra che fa freddo.”
All’interno la casa era umile ma ben tenuta. L’architettura era semplice; un lungo corridoio portava alle scale. Nel pian terreno la cucina e il tinello, al piano superiore le camere da letto. Un unico bagno, quando fu costruita era esterno alla casa e quando fu restaurata già averne uno all’interno era un lusso, due un inimmaginabile spreco di spazio e soldi.
La stufa a legna riscaldava la cucina, l’ambiente più vissuto della casa. Riscaldare i corridoi era uno spreco e per le camere, inutile. Quando si va a letto ci sono le coperte. Questa era la vita di campagna, la tradizione contadina immutata nei secoli.
“Dai. Sali dal nonno, ti sta spettando.”
La donna incalzava il figlio che presa la borsa con gli strumenti del mestiere, salì la stretta scala che portava alla stanza del nonno:
“Permesso… nonno sono Luca, sono arrivato.”
“Alla buon’ora, ma dove vivi a Milano o in Svizzera?”
“Bene, l’umore mi sembra buono, vuol dire che tanto male non stai.”
Luca si avvicinò al letto. L’anziano era pallido e nonostante nella sala si gelasse, era completamente fradicio di sudore.
Luca si mise subito all’opera: gli prese il polso, gli misurò la pressione e per finire estrasse dalla borsa il fonendoscopio, lo scaldò amorevolmente strofinandolo nella mano prima di auscultare i polmoni al vecchio nonno.
“Forza nonno, dei bei respiri profondi, ancora… dai forza un’altra volta… ecco bravo. Finito, dai riposati ora che domani mattina passo in farmacia a prenderti qualcosina per quella brutta tosse.”
“Che dici Luca, me ne andrò questa volta?”
“Nonno, non ti hanno ammazzato in guerra, penso sia difficile che lo faccia l’influenza.”
Il vecchio sorrise, pronto a ripetere un ritornello che Luca aveva sentito fin dalla più tenera età:
“Nipote impertinente, tu ridi dell’influenza, ma mio padre mi raccontava sempre che nel Venti aveva visto morire più gente d’influenza che per la Guerra Grande.”
“Si certo, si chiamava febbre spagnola e grazie a Dio non fa più paura, riposati ora.”
“Riposarmi? Avrò tempo dopo morto, non siamo rimasti in molti sai, la scorsa settimana se n’è andato anche il mio capitano, un lombardo che sembrava essere immortale. Tua madre non mi ha nemmeno lasciato andare a salutarlo per l’ultima volta. Ci sono andati gli alpini di Vò, con uno di quei bei pullman moderni. Tua madre aveva paura che mi affaticassi troppo. Ti rendi conto Luca, affaticarmi per andare a Lodi in Pullman, io, che ho attraversato la steppa a piedi!”
“Si nonno, ma avevi qualche anno in meno. Comunque la mamma ha ragione, non puoi più fare il ragazzino, adesso riposati, forza!”
Il giovane uscì dalla stanza, ma non prima di essersi assicurato che l’anziano, finalmente sollevato, si sistemasse per riposare.
“Allora Luca, cos’ha il nonno?”
Ancora prima di finire le scale la madre lo stava aspettando per avere la diagnosi.
“A parte essere arrabbiato che non lo hai mandato in gita con gli alpini, direi influenza.”
“Come “direi”? Sei o non sei un medico?”
Quest’ultima affermazione la donna la fece con una certa arroganza, quasi a sminuire le capacità del figlio, o forse solo supponendo ingenuamente che ogni medico abbia la sfera di cristallo.
“Come ti ho detto al telefono, io sono un chirurgo plastico, non un pneumologo, direi che è influenza anche se c’è un piccolo disturbo che non mi lascia tranquillo. Domani preferisco telefonare ad un collega a Roma, giusto per sicurezza.”
“Pneumologo? Roma? Si può sapere cos’ha il nonno?”
“Te l’ho detto mamma, è una banalissima influenza, nulla di preoccupante, solo che mi sembra di sentire un rumore nei polmoni, vorrei capire meglio senza far prendere al nonno antibiotici inutilmente, tutto qui.”
Capitolo 4
Quella notte Luca la passò nella sua vecchia stanza, avvolto dai ricordi di un tempo e dalla preoccupazione per il nonno. Era un medico ma in questo caso si sentiva incapace, come se a quella laurea sofferta fosse mancato un esame, un tassello, quello giusto per questo caso, quello che avrebbe permesso di ostentare la sicurezza sulla diagnosi che vedeva nei telefilm americani. Quell’illuminazione che distingueva il genio assoluto, dal mediocre medico di famiglia.
Si girò e rigirò nel letto, aveva troppi pensieri per dormire, alla fine si alzò dal caldo giaciglio e si diresse verso la libreria in fondo alla stanza, prese un raccoglitore con mano tanto sicura da far pensare che lo avesse appena riposto; era caduto nella trappola nostalgica delle vecchie foto come la mosca nella tela del ragno.
Si rivide con i capelli lunghi e i pantaloni affusolati, ricordò esattamente il giorno e l’ora dello scatto: domenica pomeriggio, 6 febbraio 1986, lui e il suo amico Cesco in partenza per la discoteca ai piedi dei colli Euganei. Sullo sfondo i loro due motorini: Modello Ciao Piaggio, sella lunga e motore rigorosamente truccato. Con tutte quelle rettifiche e travasi al povero pistone, né lui né Cesco avevano guadagnato granché in velocità, ma il rumore era degno di un aereo in decollo.
In un’altra foto sbiadita si leggeva a malapena “capodanno 1988”, sempre lui e Cesco.
Luca sorrise nel vedere quelle vecchie foto dove i ragazzi sembravano degli improbabili orchestrali, e simultaneamente gli tornò a mente di come avesse passato quasi una settimana per inventarsi un assurdo vestito da sera, rattoppando vecchi abiti demodé di suo padre e fantasiose fusciacche con scapolami di velluto.
Ma fu l’ultima foto che gli attorcigliò lo stomaco improvvisamente, in un sentimento che pensava si fosse spento molti anni prima. Quello scatto lo ricordava bene, era stato fatto sull’altopiano di Asiago nell’estate del ‘90, l’anno del campionato del mondo di calcio in Italia.
Lui e Giulia si baciavano appassionatamente davanti alla grande fontana nella piazza centrale del paese, gli sembrò ancora di sentire in bocca il sapore dolciastro del suo lucida labbra alla fragola.
Luca girò la foto, sapeva bene cosa lo aspettava sul retro.
“Non ti lascerò mai, promesso! Tua per sempre Giulia”
Quella frase la ricordava perfettamente, ne ricordava ogni ricciolo della rotonda calligrafia, ogni pressione della mano sulla carta fotografica, anche ora che la scritta era sbiadita, come lo era diventata quella promessa.
L’alba lo colse impreparato e stanco, aveva riposato poco e male. L’odore del caffè che arrivava dalla cucina fece il resto: era ora di alzarsi.
“Com’è che hai quella faccia? Non dirmi che ti ho svegliato io, ho fatto sicuramente meno rumore del tram che ti passa sotto casa scampanellando.”
Sua madre era fatta così, quel tono era nella sua natura di donna forte e sempre sulle difensive.
“No mamma, non ti preoccupare, è esattamente il contrario, qui c’è troppo silenzio, mi inquieta.”
“Ti inquieta? Già, per voi cittadini, la campagna fa più rumore del famoso tram”, replicò divertita la donna.
Luca si servì un caffè e usci di casa. Aveva conservato dalla sera prima quello strano senso di inadeguatezza nei confronti della malattia del nonno e non vedeva l’ora di confrontarsi con l’amico e collega. Cercò il numero nella rubrica del cellulare e fece partire la chiamata.
“Pronto, Galvani? Sono Carlin, come stai, ti disturbo?”
“Luca! Macchè disturbo. Che piacere sentirti. Allora come va a Milano? Bella vita, donne, personaggi famosi… voi plastici sì che siete fortunati, non come noi pneumologi. A voi le donne e lo Champagne a noi i vecchi catarrosi.”
Paolo Galvani, primo del corso di medicina, laurea con lode e bacio accademico. Madre natura si era concentrata con lui sulle doti intellettuali, dimenticandosi completamente di tutto il resto; piccolo di statura, sovrappeso dalle elementari e decisamente sgraziato nei movimenti. Lui e Luca avevano condiviso il corso ma mai la vita sociale. Dopo l’università si sentivano di tanto in tanto, era più Paolo a chiamare Luca, anzi, a pensarci bene era sempre Paolo a chiamare Luca, sempre a parte quell’unica telefonata e questo non passò inosservato al dottor Galvani.
“Allora, dottor Carlin, come mai mi ha onorato di questa sua chiamata? Deve essere successo qualcosa di veramente grave.”
“No, in realtà ho bisogno di un tuo consiglio. Paolo, sono a casa di mia madre a Vò Euganeo. Sono rientrato da Milano perché mio nonno non sta affatto bene. Subito pensavo ad una banale influenza, ma ieri sera gli ho oscultato i polmoni e…”
“E cosa?”
“E sento un rumore insolito, come se ci fosse un focolaio di polmonite in atto.”
“Dottor Luca Carlin, veramente mi hai chiamato alle otto di sabato mattina, per dirmi che tuo nonno potrebbe avere la polmonite? Santo Dio, per quanto esperto di tette e glutei mosci, saprai bene distinguere un raffreddore da una polmonite… sei pur sempre un medico prima che “artista plastico”, o nei tuoi pazienti l’importante è pagare e non fiatare?”
Il dottor Galvani rise da solo della sua scadente battuta, avvertendo anche via cavo il fastidio del collega che non si lasciò deridere ulteriormente e arrivò subito al nodo cruciale della chiamata:
“Paolo, dimmi se hai qualche notizia di quel virus Cinese, ha sintomi simili alla polmonite, giusto?”
Paolo si zittì, finalmente aveva capito dove voleva arrivare il dottor Carlin.
“Ascoltami, quello strano virus non è una cosa che ci impensierisce. I Cinesi lo hanno circoscritto, dicono che è poco più di una banale influenza, te lo ricordi no? H1N1. Il ministero dice che non arriverà in Europa. E poi, scusami, anche se arrivasse in Italia, nemmeno il virus riuscirebbe a trovare quel paesetto disperso tra le montagne, come hai detto che si chiama? Vò, ecco. Nemmeno nel nome si sono sprecati quella volta”.
“Vò è una perla, un’oasi di tranquillità che voi romani nemmeno immaginate…”
“Certo Paolo, infatti appena hai potuto te ne sei andato.”
“Questa è un’altra storia Galvani, comunque grazie, era solo una curiosità…”
Paolo capì di essere andato oltre e cercò di recuperare la situazione:
“Ok, scusami Luca, non volevo offendere te e il tuo paese, in fondo ogni uno di noi è affezionato a dove e nato. Fai così, fagli fare una lastra ai polmoni. Fatti dare il file e mandamelo, così gli do un occhio io. Vedrai che non è nulla, i vecchi hanno una tempra diversa dalla nostra.”
“Grazie Paolo, ti devo un favore”
“Ecco bravo, segnati questo favore per quando salgo a Milano. Donne e Champagne, Luca, donne e Champagne.”
Luca pensò che fu una vera fortuna non essere in videochiamata, l’amico romano avrebbe visto sul suo volto un’espressione che non dava adito a nessun possibile dubbio; trovare una donna per il dottor Garlvani non era un favore, era un miracolo!
Capitolo 5
“Nonno buongiorno, come va oggi? Ce la fai a vestirti, andiamo a fare un giretto in ambulatorio, preferisco farti fare una lastra ai polmoni.”
L’anziano non rispose.
“Nonno, dai, mi hai sentito?”
Nessuna risposta. Luca si allarmò per quello strano silenzio, spalancò i balconi e si avvicinò al letto.
L’anziano era in un bagno di sudore, il respiro affannoso come se avesse un enorme peso sul bacino.
Luca corse nella sua stanza per prendere la borsa medica, cercò di mantenere la calma e si mise all’opera. Pressione ottanta su cento e dieci, battito accelerato. Indossò il fonendoscopio e lo posò sul torace nudo dell’uomo che fece un piccolo sussulto a contatto con il freddo del metallo.
Il rumore dei polmoni era completamente diverso dalla sera prima, com’era possibile un tale peggioramento in poche ore? Il giovane dottore non aveva altra scelta: chiamare un’ambulanza.
“Buongiorno, sono il dottor Carlin, la chiamo da Vò Euganeo, via del Poggio civico 12. Abbiamo un anziano, novantasei anni, sospetta polmonite in atto, non dà segni di coscienza. Chiedo intervento medico con ossigeno. La strada è difficile da individuare, vi aspetto all’ingresso della via.”
L’operatore del 112 non chiese altro, aveva capito subito che stava parlando con un sanitario professionista.
“Fate presto, è mio nonno”, aggiunse Luca.
“Certo dottore, faremo il prima possibile.” aggiunse l’operatore.
Com’era possibile, anche la più terribile delle polmoniti ha un’incubazione più lenta. Non aveva mai visto nulla di simile. Eppure ieri sera, ne era sicuro, non era così preoccupante.
Luca scese le scale di corsa per avvisare la madre, cercò di farlo nella maniera più serena possibile, ma non ci riuscì. Lui non era preparato per affrontare i parenti dei pazienti.
“Mamma, il nonno è peggiorato all’improvviso, ho dovuto chiamare un’ambulanza, andrà tutto bene, non preoccuparti, vai su da lui mentre vado incontro all’ambulanza.”
La donna non disse nulla, scambiò solo un’occhiata al figlio e corse al piano superiore.
A Luca quello sguardo bastò per capire la delusione della madre.
Mentre aspettava l’ambulanza Luca ripensò alla sera prima. Dove aveva sbagliato, cosa aveva sottovalutato, non riusciva a trovare nulla di scorretto, nulla di inopportuno eppure la malattia era degenerata come se fosse… un virus!
No non può essere, Galvani lo ha escluso categoricamente e lui non sbaglia mai.
Assorto nei suoi pensieri, Luca quasi non si accorse dell’arrivo dell’ambulanza.
Non fece nulla, rimase fermo immobile mentre il paramendico e il personale sanitario caricavano l’anziano sulla lettiga. Li guardò senza muovere un muscolo.
“Mamma… io non ho capito, ti giuro che ieri sera era una banale influenza.”
La donna lo guardò senza pronunciare una sola parola, ma a Luca bastò.
“Dottore, ehi dottore… non è lei che ci ha chiamato?”
Il paramedico si rivolse a Luca diretto, deciso, come se l’ormai decennale esperienza lo avesse addestrato ad individuare un medico anche in mezzo ad una folla.
“Sì, mi scusi… sa, non è facile quando capita ad un famigliare. Sì vi ho chiamati io. Non capisco cosa può essere successo, ieri sera le posso assicurare che i parametri vitali erano più che buoni, sembrava una banale influenza con un leggerissimo rumore polmonare…”
“Capisco e in cosa è specializzato… dottore?”
“Sono un chirurgo plastico, ma questo cosa c’entra, sono ancora in grado di auscultare i polmoni ad un paziente.”
“Certo dottore, non lo metto in dubbio, però questa volta non è stato in grado di distinguere un’influenza da una polmonite bilaterale acuta.”
Il paramedico non aggiunse altro, voltò le spalle a Luca, salì in ambulanza e partì a sirene spiegate.
Luca non ebbe né la forza né la volontà di replicare a quelle parole, fu come se il mondo, il suo magico e fatato mondo, improvvisamente si fosse disgregato assieme alla sua autostima. Aveva sempre creduto di essere un buon medico, gli avevano fatto credere di essere uno bravo, capace di volare altro, mentre ora un paramedico di un ospedale di campagna lo aveva abbattuto con un solo, preciso colpo.
Lui che era chirurgo di uno dei più noti nosocomi italiani era appena stato atterrato da un infermiere dell’ospedale di Schiavonia, un buco talmente piccolo che gli abitanti della zona sapevano a malapena della sua esistenza.
Non poteva sostenere ancora quella situazione e decise di fare quello che aveva sempre fatto quando non era in grado di reggere la pressione: fuggire.
Capitolo 6
Prese in fretta a furia le poche cose che aveva in stanza, buttò l’occhio sull’album di fotografie ancora ai piedi del letto, lo ripose al suo posto nella libreria in fondo alla stanza e uscì.
Nemmeno mezz’ora dopo era già nuovamente sulla Venezia – Milano. Aveva deciso di fuggire dall’incubo, di abbandonare quel mondo contadino tormentato e di ritornare nella sua Milano.
Continuava a pensare al nonno in fin di vita e alla sua inettitudine che aveva mal compreso il vero problema:
“Ora è in mano a dei veri medici, altro non posso fare. Se la caverà il vecchio, ha la pelle dura.”
Riflessioni solitarie capaci a malapena di coprire il rumore dell’auto e non certo della sua coscienza.
Lo distolse dai pensieri il telefono; Paolo Galvani.
Luca sentì un forte senso di rabbia salire dallo stomaco, quasi volesse condividere il suo stato d’animo con l’amico medico o peggio, quasi volesse usarlo come capro espiatorio di quel fallimento diagnostico. Poi si calmò:
In fondo quello sfigato di Galvani mica era in camera del nonno, mica ha sentito lui i suoi polmoni, anzi mi ha pure detto di fargli la radiografia.
Luca lasciò suonare il telefono e accese l’autoradio, un po’ di musica gli avrebbe distratto la mente e soprattutto messo a tacere la coscienza.
Passò qualche stazione distrattamente finché di fermò su uno dei successi trasmessi al recente festival di Sanremo.
Lasciò scorrere la canzone distrattamente, osservando la fredda campagna ancora avvolta nella nebbia. Poi il notiziario, con i commenti del dopo festival e gli apprezzamenti e disappunti sul vincitore come tutti gli anni, tutto sommato questo aiutava Luca a distogliere il pensiero, sapeva di normalità. Poi arrivò quella notizia, improvvisa, quasi gettata nella mischia Sanremese come cosa di poco conto: Il virus cinese aveva un nome: Covid -19. Ed ora era una realtà anche per la nostra penisola, sembrava che ci fossero due casi anche in Italia, due turisti cinesi accertati positivi. Quindi non era impossibile come aveva detto Galvani, il virus era arrivato!
Al primo autogrill Luca si fermò per richiamare il dottor Galvani, adesso aveva proprio bisogno di sentirlo.
“Luca, grazie al cielo mi hai richiamato! È arrivato anche in Italia proprio qui da noi… il Virus… Sapevo che avevamo un paio di cinesi ammalati, ma nessuno pensava al covid.”
“Cazzo Galvani, ma non mi avevi detto che era impossibile! Che razza di centodieci sei? Sapete già che diffusione ha, avete un quadro generale dei sintomi? Chi attacca, giovani, vecchi, bambini?”
“Si sa poco, molto poco. Si pensa che sia un virus mutato di origine animale. Ha dei sintomi influenzali, parte con una alterazione della temperatura e poi degenera…”
“Cosa significa che degenera, come degenera…”
“Con una polmonite acuta, almeno così sembra, ma stai calmo Luca, mi hai detto tu che tuo nonno aveva appena un rumorino, una polmonite acuta è tutt’altra cosa, l’avresti sentita bene… pronto Luca ci sei?”
Nessuna risposta. Il dottor Carlin era già ripartito di scatto verso la prima uscita utile per girare la macchina e dirigersi verso l’ospedale di Schiavonia. Forse sarebbe stato l’ennesimo errore, forse si sarebbe fatto deridere ancora una volta dall’infermiere dell’ambulanza, ma questa volta doveva rischiare.
Durante il tragitto di ritorno verso il paese Euganeo, Luca ebbe modo di riflettere con calma. Doveva mettere da parte l’istinto e ragionare. Se fosse piombato in un ospedale di provincia urlando al rischio pandemia e all’untore, avrebbe rischiato di essere allontanato in malo modo. Sicuramente tutto il personale aveva già sentito la notizia dai media e preso le precauzioni necessarie, anche se in realtà il caso era stato isolato e i due sfortunati turisti controllati e monitorati a vista. Prima di urlare “al lupo” avrebbe dovuto raccogliere più dati possibili. Se suo nonno aveva il virus cinese il rischio era per tutto l’ospedale, peggio per tutto il paese, i sintomi c’erano, ma non c’erano di certo i presupposti per il possibile avvenuto contagio: nonno forse non sapeva nemmeno dov’era la Cina, né conosceva cinesi, inutile dire che non si era mosso da Vò da almeno un decennio. Ritornò quindi a casa di sua madre.
La donna lo vide arrivare da lontano, era ferma nel piccolo cortile con alcune persone. Vò è un piccolo paese e nelle poche ore della sua assenza, la voce si era sparsa.
Luca fermò l’auto , lasciò la valigia nel sedile e scese come se fosse la cosa più naturale del mondo:
“Ah, Luca, sei qui? Pensavo avessi deciso di tornare a Milano.”
Replicò la donna quasi sussurrando.
“Diciamo che ero stato tentato nel farlo.”
“Vedo che non sei cambiato molto dall’ultima volta e non è un complimento.”
Una donna si infilò nel discorso, due occhi bellissimi e rabbiosi come se quella frase fosse ferma a mezz’aria da decenni.
“Ciao Giulia, fa piacere anche a me rivederti.”
Replicò Luca con la solita ironia pungente a denti stretti.
“Ho chiamato io Giulia, lavora in ospedale a Schiavonia dove hanno ricoverato il nonno.”
La madre di Luca si infilò nella contesa disfida a gamba tesa, non erano né il luogo né il momento da parte dei due “ragazzi” di riversarsi reciprocamente addosso ormai antichi rancori. Luca capì al volo le intenzioni della madre, ben oltre le parole, fece un respiro a fondo e si rivolse alla ragazza con fare sereno.
“Bene, mi fa piacere. Di cosa ti occupi Giulia?”
“Sono una virologa, mi occupo di malattie tropicali e infettive.”
“Interessante… e cosa mi dici del nuovo virus cinese?”
“Poco di più di quello che sai anche tu. Sembra molto aggressivo ma sembra sia stato contenuto dai cinesi.”
Luca prese sotto braccio la ragazza per allontanarsi dal piccolo gruppetto di vicini curiosi che nel frattempo si erano avvicinati a sua madre circondandola di poco affetto e tante chiacchiere.
“Senti Giulia, i sintomi del nonno sono molto simili a quelli provocati da questo maledetto virus cinese, ti giuro che ieri sera la vecchia quercia aveva un piccolo ronzio, appena percettibile mentre questa mattina sembrava un vecchio trattore “Landini”.”
La ragazza guardò il collega con una certa diffidenza. Dopo che era stata abbandonata da Luca, Giulia non aveva perso occasione per capire cosa stava facendo l’uomo che avrebbe voluto sposare.
Per la verità aveva saputo più dai social che dalla gente del paese: Luca era diventato un famoso chirurgo plastico, ma soprattutto lo aveva visto nelle riviste patinate a braccetto con splendide modelle o famose attrici.