“Il nibbio non c’entra”. Un racconto di Pietro Parolin

Tempo di lettura: circa 16 minuti

Capitolo 1

L’impianto di domotica funzionava molto bene anche prima del fatto, come lo chiama Yzumi. Le tende si riavvolgono automaticamente alle 5.00 precise per far entrare i primi raggi del sole nella camera da letto dall’unica grande vetrata che fa da finestra lassù al diciottesimo. Suo padre aveva deciso così, per svegliarsi ogni giorno con l’alba di Tokyo, facesse o meno bel tempo non gli importava. Per lui ogni alba era uno spettacolo ugualmente appagante.

È ancora così ed è strano per Yzumi che tutta quella meccanica, alla quale suo padre si era approcciato con l’entusiasmo di un bambino, fosse già predisposta alla perfezione, prima del fatto.

Un’escursione ai piedi del Fuji con gli studenti migliori per ascoltare la sola musica riproducibile in quel luogo, composta ed eseguita dagli unici esseri che ne hanno pieno titolo e diritto, secondo il maestro Kaneda. Sono composizioni fatte per lo più di versi e cinguettii ai quali gli allievi – e il maestro stesso – erano chiamati ad assegnare il giusto posto nel pentagramma, in un folle solfeggiare che aveva come premio un dolce da condividere, alla fine dell’insolita lezione.

Kaneda prima vacillò un momento, tanto che sorrise, come per dissimulare una sciocchezza, la perdita d’equilibrio momentanea perché si è incappati in un sasso o in una radice, poi dischiuse leggermente le labbra e si accasciò a terra. Aveva appena assegnato un “mi bemolle” al fischio di un nibbio bruno che planava sopra di loro e che si portò via con una virata l’equilibrio, la vista, la coscienza, l’essere nel mondo del maestro Kaneda.

Poi di fatto ne è successo un altro e nella linea temporale della sua vita Yzumi lo ha inserito e nominato come il fattaccio, per distinguerlo tra sé e sé e con le rare persone con cui parla al telefono, dal fatto accaduto a suo padre l’anno prima.

Yzumi vorrebbe che il termine “fattaccio” suonasse per lo più con un’accezione divertente, se non comica. Per allontanare ogni sospetto di preoccupazione, ma anche per giustificare con leggerezza tutto quello che il suo cervello stava per macchinare.

Da quando la Diamond Princess era stata messa in quarantena aveva cominciato a definire il Covid-19 come il fattaccio, anche se già aveva posto molta attenzione ai fatti di Wuhan e si chiedeva come questa pandemia avrebbe potuto portare qualche straordinaria novità nella sua vita, oltre eventualmente a sconvolgerne i ritmi.

Tutto, dove si decide, era ancora da decidere, e al di là delle precauzioni governative, al di là di come avrebbero riorganizzato le vite e le consuetudini sociali dei giapponesi, Yzumi avrebbe messo per prima una barriera tra sé e il mondo, per riuscire finalmente ad agire e cambiare quanto di lei non le andava giù e che riguardava, riguarda, il rapporto con suo padre, fin da quando aveva organizzato prontamente tutto quanto c’era da fare dopo l’incidente, o la malattia, o il trauma di Kaneda.

“Pollo fritto come quello che abbiamo mangiato ad Osaka quando sono venuta l’inverno scorso, ti ricordi? C’è quel posto vicino allo studio che lo fa uguale, col riso e la zuppa di miso.”

“Sì. Hai bisogno di qualcos’altro? Qualcosa per lui? Non so cosa…”

“No, no. Anzi sì. Se puoi farmi avere quella registrazione.”

“Ne aveva due di preferite giusto? Quelle di cui parlava sempre, quella registrata a Mosca nel 1991…”

“Quella dell’anno dopo.”

“Berlioz. Ce l’ho in archivio, ti posso portare l’hard disk.”

“Il nastro, se puoi porta il nastro originale.”

“Lo devo cercare un po’, ma va bene. Pollo fritto, riso, zuppa di miso e Berlioz.”

“Grazie.”


Capitolo 2

Nell’attico di Kaneda l’acqua del bagno è ancora regolata a una temperatura di 42 gradi, la temperatura perfetta per un bagno rilassante.

Ogni mattina Yzumi indossa la mascherina e i guanti di lattice e con delicatezza lava il corpo di Kaneda.

Intinge la spugna su una bacinella d’acqua che ha fatto leggermente raffreddare, e poi ha cura di passare e tamponare ogni piega del corpo del padre, mettere la crema dermatologica e ricomporlo alla perfezione, in modo che non debba mai soffrire di piaghe da decubito.

Ha chiesto all’inserviente che veniva ogni mattina di sospendere il suo servizio, non certo per mancanza di fiducia o di fondi. Le ha pagato un mese di anticipo e riprenderà non appena ce ne saranno le condizioni.

Limitare i contatti del padre con il mondo esterno, il più possibile, data la sua precaria situazione di salute.

Così ad oggi gli unici ammessi al diciottesimo sono il medico per il controllo settimanale, l’infermiere, a giorni alterni, per le medicazioni e il cambio flebo, e il fisioterapista, che però ha ridotto le sue visite da due volte a settimana a una solamente. Ognuno entra in casa con le ovvie precauzioni, sulle quali Yzumi si è preoccupata di informarsi in maniera scrupolosa, tramite appunto il medico che visita Kaneda una volta a settimana.

Restano esclusi dunque l’inserviente che si occupa generalmente del cambio lenzuola, della biancheria e della pulizia di suo padre, e restano escluse le visite a cadenza regolare per la cura della persona, unghie, capelli, barba.

Si occupa di tutto Yzumi.

A quelle persone Yzumi si è limitata a comunicare che non avranno bisogno di loro fino alla fine del fattaccio, con loro pandemia o semplicemente corona virus, o covid-19, o in alcuni casi emergenza, quando sente di potersi avvicinare e scoprire un po’ di più, facendo trapelare una sorta di preoccupazione non solo personale ma anche sociale, addirittura nazionale.

In realtà lo ha fatto solo con il ragazzo che massaggia i piedi e fa manicure e pedicure, al quale vuole trasmettere vicinanza, come se il loro sentire il quotidiano fosse all’incirca simile, analogo, anche se di fatto non lo è, per estrazione sociale e istruzione.

In sostanza Yzumi adatta il suo lessico da familiare a confidenziale con un criterio di assonanza musicale, alle persone che le stanno appena un po’ più simpatiche della norma. Pochissime. E comunque, il ragazzo, lo ha lasciato a casa.


Capitolo 3

Da un anno le casse audio della camera, del bagno e del soggiorno, dalle 8.00 alle 9.00 del mattino trasmettono ancora una playlist precisa e a rotazione settimanale. Era e rimane il momento di ascolto “disimpegnato” del maestro.

Yzumi ha deciso che questa routine non deve cambiare, fosse solo per fornire un’immaginaria àncora sonora a suo padre, una sorta di ponte col presente, con le abitudini che lui aveva iniziato a comporre con solenne meticolosità appena aveva preso possesso del grande appartamento al diciottesimo, subito prima del fischio del nibbio.

È testardamente convinta che lui possa orientarsi nel tempo, in quell’ora prima che lei gli legga il giornale come fa ogni giorno, sussurrando data, mese e anno.

Se il lunedì dalle casse di Kaneda è sempre uscito il jazz di Davis, è giusto che continui ad essere così, e questa è stata una decisione portata avanti con il rigore accademico che l’ha sempre contraddistinta.

Yzumi pur avendo portato a termine gli studi di conservatorio in Italia non ha mai voluto definirsi una musicista. Ha studiato violino, raggiunto dei livelli discreti, o buoni, certamente non eccellenti.

Ha suonato in un’orchestra poco importante per un periodo, nella prima giovinezza, ma il fatto di non essere il primo violino e portare un cognome così importante non le faceva vivere la musica come voleva. Si era concentrata allora sullo studio della musicologia e si era scoperta molto più a suo agio con la ricerca che con la pratica musicale.

Un paio di pubblicazioni di riconosciuto valore accademico l’avevano rimessa nella condizione di guardare suo padre senza vergogne, nonostante il maestro non avesse mai neppure alzato un sopracciglio per giudicare la figlia e le sue attitudini, ma per Yzumi è sempre bastato lo scrupolo che Kaneda dimostrava nell’ascolto non solo della musica, ma anche delle persone, per sentirsi in qualche modo indegna di portare il suo stesso cognome. Troppa attenzione.

All’università si presentava con il cognome di sua madre, all’insaputa del padre e tra il composto sgomento di alcuni docenti, che non si capacitavano del suo comportamento una volta capita la provenienza illustre della ragazza, concludendo che portare il cognome europeo della madre fosse soltanto un vezzo giovanile, un capriccio.


Capitolo 4

“Morto un cittadino britannico che si trovava a bordo della Diamond Princess. Almeno 705 passeggeri hanno contratto il
virus durante la quarantena a Ykohama.”

Yzumi chiude il giornale, si alza e lo appoggia sul tavolino del salotto dell’enorme camera da letto del padre. Dal diciottesimo piano fissa la baia e poi inclina il capo, convinta di poter raggiungere con la vista i fiori bianchi del sakura che dà il benvenuto a chi entra nel palazzo. Non vede nulla e sa che non c’è di sicuro un grande traffico a quell’ora. È salita dal dodicesimo, abita lì, sei piani sotto, ma il suo appartamento è piccolo e affaccia dalla parte opposta a quella del padre. Nonostante questo la visuale migliore forse l’ha sempre avuta lei, quando col bel tempo vede in lontananza il Fuji.

Questa era la convinzione del maestro Kaneda, quando acquistò l’appartamento per Yzumi, con la preoccupazione paterna, mai espressa a parole, di sistemare una figlia che probabilmente lì non avrebbe mai trovato un marito, e non avrebbe mai seguito i canoni sociali del Giappone, perché aveva vissuto troppo tempo all’estero.

E infatti fino a poco tempo fa Yzumi tornava di rado in patria, almeno fino al fatto, preferendo la vivace vita di Amsterdam alla visione del Fuji che, ora, non le dà nemmeno più il divertito disinteresse di chi ha ricevuto un regalo così lussuoso motivato da quanto si vede in lontananza dalla finestra. Le ricorda, ovviamente, soltanto il fatto.

Yzumi si avvicina al padre. I capelli dell’uomo sono morbidi e lunghi come li ha sempre portati da che lei lo ricordi, gli occhiali con la montatura d’oro messi al solito posto, sul comodino laccato di fianco al letto. Yzumi prende gli occhiali del padre e li osserva in controluce, li pulisce con del disinfettante e glieli infila con cura. Così lo riconosce.

La consuetudine di lavarlo ogni giorno, da quando ha deciso che l’emergenza del covid-19 la metteva nella necessità di occuparsi personalmente di lui, l’ha un po’ per volta spinta ad accorciare le distanze, esattamente quello che ricercava.

Se da subito aveva iniziato a vederlo come un corpo ancora vivo ma vuoto, incerta di aver messo in moto uno straordinario volano di intimità, vicinanza e condivisione di spazi che non le erano mai sembrati raggiungibili, oggi si rende conto non solo di apprezzare la lucentezza della pelle di Kaneda, con pochissime rughe nonostante l’età avanzata, e il candore di quelle lunghe ciocche di capelli un tempo tutti scompigliati e che gli davano un fascino occidentale e romantico fin dalla giovinezza (quel fascino che, chi lo sa, aveva forse conquistato sua madre), ma apprezza anche quella sorta di brivido o resistenza, o impacciato pudore che ha sempre provato al suo cospetto, come una sorta di antico e tribale timore religioso, che finalmente percepisce solo come un vibrante adagio.

È quel distacco che emerge nel capire realmente un padre anziano?

Forse invece è percepire ogni respiro e battito di cuore come proprio solamente di un essere umano, al quale non sono legati i ricordi, le aspettative, le paure e le credenze, e questo Yzumi lo coglie solo nella purezza della malattia e della perdita inesorabile che si avvicina sempre di più.

Si avvicina lentamente alla testa del genitore, così tanto da stupirsi di quanto sia piccola rispetto alla sua.
Chiude gli occhi e si mette in ascolto, in profondo ascolto, per un momento.

Ecco cosa sente Kaneda, se sente qualcosa e lei ne è convinta: il brusio leggerissimo delle ventole dell’impianto di areazione, il tick-tack attutito e distante dell’orologio della sala da pranzo, regalo del console italiano. Poi c’è il lamento quasi impercettibile dei motori degli ascensori che si inseguono nel loro allontanarsi gli uni dagli altri, in una sorta di primitiva toccata e fuga, e in fine un sottofondo sibilante come un acufene, il fischio sottile del
vento che si spacca sugli spigoli vivi del terrazzo.

Questo è il mondo di suo padre quando è solo, quando non funziona l’impianto stereo pre impostato?

Un buco nero sonoro in cui non risulta alcuna variazione, alcun trillo inaspettato o composto accordo, che siano un cane che abbaia, o improvvise corse di bambini, o il friggere di una padella, il tintinnio delle stoviglie raccolte dopo la cena, il fatale e meraviglioso mi bemolle di un nibbio bruno che plana controvento in un pomeriggio di primavera.


Capitolo 5

Lo smartphone di Yzumi squilla e la riporta al momento presente.

È una videochiamata di Haruo alla quale risponde dopo essersi sollevata di fretta e sistemata al meglio i capelli.

“Appoggio qui fuori, sulla porta d’entrata?”

“Sì, hai portato il nastro?”

Haruo annuisce, poi fruga nelle tasche del giubbetto e tira fuori due cassette, che mette accanto alla busta di carta col pollo, il riso e la zuppa.

“Ne ho trovati due di interessanti, il Berlioz che mi avevi chiesto e poi ho trovato anche questo. È una direzione dell’Inverno di Vivaldi del 1992.”

“È stata registrata a Torino… perché l’hai portata?”

Dallo schermo dello smarphone Yzumi nota che Haruo prova a dissimulare l’imbarazzo, alza le spalle e sorride, mentre si
sistema il cappuccio della felpa tirando i lacci del colletto.

“Sul nastro c’è scritto Mosca. Non so, pensavo che magari… mi sembrava gli piacesse.”

Yzumi non dice nulla. Distoglie gli occhi dallo schermo e fissa suo padre che respira impercettibilmente, il viso rivolto al soffitto ora è screziato dalle ombre delle tapparelle che si sono abbassate automaticamente per mantenere una luce diffusa e sempre uguale.

“Hey!”

Haruo mostra ad Yzumi una mascherina ancora sigillata, un paio di guanti e del disinfettante in boccetta. Timidamente butta là: ”mi apri?”

Yzumi sospira, per un istante sembra che qualcosa le stia togliendo un peso dalle spalle, ma quel peso, ora, è quello che la tiene in equilibrio sulla lunga corda tesa che sta percorrendo per andare verso una scoperta tutta nuova, e quel giorno più di altri sente di esserci vicino.

Decide di lasciare che il suo aspetto meticcio, mezzo olandese e mezzo giapponese, parli per lei, con una delle sue espressioni incomprensibili per Haruo e con le quali se l’è sempre cavata, perché vanno in totale contraddizione con quanto dice e lascia intendere, portando l’interpretazione di sé su un livello sleale e falso, indossando la maschera naturale – che è il suo viso inconsueto – disarma tutti, Haruo in particolare.

Il ragazzo vorrebbe di più, soprattutto ora che si è trovato a perdere terreno da quando ha insistito per fare il salto e passare da “amico di sesso” a “quasi fidanzato”.

Ma Yzumi fulmina ogni aspettativa proprio quando sembra che le cose possano prendere la piega giusta.

“Forse, non so. Magari dopo il fattaccio.”

Sorride mostrando le fossette in modo eccessivo, riuscendo a mantenere lo sguardo inespressivo e cauto allo stesso tempo, come un gatto che un po’ ha paura, un po’ ha il desiderio incondizionato di buttarsi da un’altezza spropositata.

Comunque raggiunge l’obiettivo che si è prefissata con precisione criminale.

Haruo abbassa le spalle e china leggermente il capo, riesce straordinariamente a sorridere, prima di portare la mano destra in alto per salutare, fino a trasformare il tutto in uno sconsolato saluto militare, che dovrebbe risultare simpatico ma è soltanto puerile.

“Se non fosse così sottomesso tra noi sarebbe diverso.”

È la prima volta che Yzumi parla direttamente a suo padre di Haruo.

Questo la precipita nella consapevolezza che qualcosa sta finalmente cambiando. Se il virus, il fattaccio, che usa come la scusa che aspettava per scendere nelle profondità del suo rapporto con Kaneda, dando una parvenza di necessità, di impellenza al suo cambiare radicalmente comportamento e abitudini, riuscirà a renderla più onesta con se stessa, e perché no con gli altri, allora avrà raccolto il miglior risultato della sua vita, un risultato che non ha mai sfiorato nemmeno in anni di analisi.

Soltanto si chiede se questo accadrà solo dopo aver masticato per ore ricordi, considerazioni, pensieri da sempre sfuggenti, lì al capezzale del padre, o tutto arriverà come spera, in un lungo e costante colloquiare con lui, che alla fine è e resterà un monologo.

Le si blocca il respiro.

Le si chiude la gola, deve abbandonare la camera del padre e andare in bagno a vomitare.


Capitolo 6

Il pollo fritto è freddo, e anche i funghi alla citronella.

Yzumi non ha voglia di usare il microonde del padre e mangia svogliata direttamente dalla confezione.

Si è messa nella piccola cucina, che ha un’ulteriore entrata, secondaria, all’attico. Dovrebbe essere, e per un periodo brevissimo lo è stata, l’entrata della cameriera del maestro. Si entra in casa usando delle tessere con dei chip al posto delle chiavi e quella della cameriera è ancora poggiata sulla mensola sopra il piano cottura, dove l’ha messa Yzumi.

Dal giorno seguente, sicuramente, comincerà ad usare l’entrata principale dell’appartamento. Effettivamente non si era mai soffermata sul perché continuasse a usare la porta secondaria, visto che gli ascensori per raggiungere l’attico e l’entrata principale sono poco più lontani del secondario, nel suo stesso piano e lungo lo stesso corridoio.

Si alza, mentre ancora sta masticando, infila la mascherina e raggiunge il comodino laccato in camera di Kaneda.
Accanto agli occhiali il portafoglio, che prende e apre.

Ne toglie la chiave di casa del padre, la tessera ha un colore differente da quella della porta secondaria e si stupisce di ritrovare nel portafoglio una quantità non indifferente di contanti. Li prende, pensando che serviranno per le necessità di suo padre, senza che debba andare in banca o collegarsi al sito per eseguire dei bonifici, ma con la consapevolezza, una volta che li ha messi in tasca, che li userà certamente per quello, ma fino a quel momento erano rimasti lì perché credeva che lì dovessero restare, come gli occhiali, come l’orario di riavvolgimento delle tende, la temperatura dell’acqua e la playlist a rotazione settimanale.

“Ciao scusami…”

“Hey.”

“Lo vedi? È il tablet per il controllo di casa.”

Yzumi alza il tablet a favore dello schermo del cellulare, dall’altra parte Haruo, che è ancora in accappatoio e si sta massaggiando la testa con un asciugamano, lo guarda infilandosi gli occhiali.

“Sì, mi ricordo, me ne aveva parlato il maestro.”

“Come si usa? Vorrei cambiare la playlist.”

“Ti vuoi trasferire lì?”

“No.”

“Non sono affari miei, scusami. Se mi dai l’accesso posso farlo io da remoto.”

“Non conosco la password. C’è un altro modo?”

“Dovrei provarci io… posso passare più tardi, se vuoi.”

“No, non c’è fretta.”

“Senti, so che non è il momento… ma non si può continuare così.“

“Sì, lo capisco.”

“Sul serio. Yzumi, non si può. Sto troppo male.”

Non sa bene perché, ma Yzumi sorride.

“Mi stai lasciando?”

Yzumi appoggia il tablet sul tavolino laccato, si dirige verso il salotto della camera, avendo cura di non inquadrare più suo padre, alle sue spalle.

“Non lo so. Cioè, vorrei che fosse diverso. Credo nella semplicità di una relazione, capisci? Con te non c’è nulla di trasparente. È sempre tutto…”

“Faticoso. Me lo hai già fatto notare.”

“Tanto. Troppo.”

“Ora è così. Magari più avanti, forse…”

“Lascia perdere. Senti, i nastri… li rivoglio indietro, sono miei, è il mio lavoro.”

“Certo. Li lascio al custode.”

“Grazie.”

“Ci sentiamo, allora.”

Yzumi chiude la telefonata e il suo sguardo in quel momento non tradisce nessun disappunto, nessun dispiacere.
Ha già vissuto una tempesta emotiva poche ore prime e quella le sembra la cosa più vicina a un mare calmo e anzi, il suo istinto le sta dicendo che la rotta che si sta definendo un pezzetto per volta, quel giorno, è sicuramente quella giusta.

Si alza dalla poltrona sulla quale è sprofondata per un breve istante, giusto il tempo di chiudere la cigolante porta della sua storia con Haruo, o voltare pagina dello strampalato libro della sua vita che le appare via via meno polveroso.

Raggiunge la cucina e prende dal tavolo i due nastri. Sono cassette registrate dal vivo, da un piccolo registratore che il maestro metteva ai piedi del suo palchetto prima di ogni concerto. Riascoltava poi l’intera esecuzione per giorni, perdendosi negli infinitesimali eterni spazi tra una nota e l’altra.

Era un vezzo che si portava ancora appresso, anche se per gli ultimi concerti, o le prove, adoperava un microfono digitale. Non gli interessava tanto la qualità della registrazione quanto la possibilità di un ascolto più simile possibile a quello vissuto durante l’esecuzione.

Haruo in questo si era sempre dimostrato un tecnico eccellente, non solo per quanto riguardava le incisioni degli strumenti ma anche per l’archivio personale delle registrazioni del maestro Kaneda.


Capitolo 7

Yzumi era rimasta profondamente ammaliata dalla quantità di nastri che Haruo aveva raccolto nel tempo e che aveva riordinato nel suo studio. “Il museo”, lo chiamava, e aveva cominciato ad allestirlo fin da ragazzino, da quando, con incredibile perspicacia e attitudine aveva dimostrato una sensibilità fuori dal comune per l’accordatura degli strumenti nei luoghi più impensabili, e per la precisione e la qualità delle registrazioni che incideva.

Kaneda con lui era cristallino e i suoi occhi brillavano, mentre gli parlava, stimolando l’incredulità di tanti intellettuali della musica che non riuscivano a capire perché, posto che Haruo si era dimostrato bravissimo e che il suo ruolo era fondamentale, il maestro lo tenesse così tanto in considerazione. Era pur sempre solo e soltanto un tecnico.

“Ecco perché.”

Dice Yzumi a suo padre. “Ecco perché mi piaceva… perché piaceva a te.”

La grafia di Haruo è chiara e precisa sulla copertina dei nastri, la riconosce nonostante avesse all’epoca forse tredici anni: “Berlioz, Mosca 1991”

L’altra cassetta stranamente non ha la scrittura di Haruo sulla copertina della custodia. Sembra quella di suo padre: “Vivaldi, Mosca 1992”. Accanto alla data tre stelline disegnate e annerite a penna, il segno inconfutabile che è opera del maestro Kaneda.

Tre stelline sono sempre state il suo segno distintivo per segnalare che qualcosa per lui era veramente degna di nota, abitudine antica adottata quando il rating online era ancora sconosciuto e che all’epoca divertiva chi conosceva il maestro, perché anche questa abitudine, questo piccolo vezzo,  ne sottolineava in qualche modo la particolarità e la bizzarria di artista.

In realtà, pensa Yzumi rigirando la cassetta tra le dita, non fosse stato chi è, questa cosa sarebbe stata totalmente ignorata da chiunque, quando non addirittura considerata noiosa.


Capitolo 8

Respira. Ributta indietro un altro attacco di ansia che sente crescere dalla pianta dei piedi, risalire velocemente lungo le gambe indebolendo le ginocchia e, se mai arriverà al ventre, di nuovo dovrà andare in bagno coi conati.

Giornata movimentata, nel suo essere totalmente ferma, immobile.

Yzumi non vuole avere sensi di colpa, e detesta in quel preciso momento che qualcosa stia disturbando la sicurezza della sua nuova e precisissima rotta, non intuendo che forse non è un’interferenza, ma un cambio di direzione vero e proprio.

Alla fine non aver ricordato che l’esecuzione preferita di Kaneda non è la registrazione di Berlioz del ’91 ma il Vivaldi del ’92 è cosa di pochissimo conto, nella vita di una persona. Che fosse uno sconosciuto a ricordarlo meglio di lei non deve avere alcun peso, perché suo padre, perfino in quelle condizioni, resta un uomo pubblico, che ha vissuto a contatto con un numero imprecisato di persone, che ha intessuto tante relazioni quante soltanto gli uomini in vista riescono e sanno intrattenere.

Yzumi si siede sulla poltrona del salottino e fissa di nuovo, per l’ennesima volta, suo padre.

Afferra il tablet e prova a inserire la password.

Scrive di getto, con la speranza sciocca di aver ragione, di ricordarsi qualcosa che riguardi solo lei e suo padre.

“Berlioz1991”
Un leggero tremolio della schermata le fa capire che no, non è la password corretta.

Prova allora, con l’ansia di una triste aspettativa, a digitare un’altra successione di caratteri e numeri:
”Vivaldi1992”

Niente. Lo schermo ha il medesimo tremolio e questo è un buon motivo per farle fare quasi un sorriso, come non avesse perso una sfida e avesse addirittura ragione su qualcuno.

Yzumi si avvicina alla libreria, accende l’impianto stereo e seleziona il modulo del vecchio mangianastri. Immagina che l’ultima volta suo padre abbia compiuto gli stessi gesti, appoggiando la custodia della cassetta dove la sta poggiando lei ora, e attendendo che l’alloggiamento del nastro finisse la sua lentissima corsa prima di poterlo inserire.

Dopo un breve fruscio Berlioz risuona nella camera del padre ed è la vibrazione dello smartphone di Yzumi a distoglierla con stizza da quel ricercato ascolto.

È un messaggio di Haruo, che legge all’istante.
Rimette lo smartphone in tasca e afferra nuovamente il tablet. Digita in fretta nello spazio riservato alla password: “Yzumi”.

La finestra di homepage del programma di domotica si apre accogliendo ogni possibile richiesta di cambiamento.

Il maestro Kaneda è immobile sul suo letto come da un anno a questa parte.

Berlioz risuona nella camera coprendo il brusio leggerissimo delle ventole dell’impianto di areazione, il tick-tack attutito e distante dell’orologio della sala da pranzo, il lamento dei motori degli ascensori, il rumore del vento che si spacca sugli spigoli vivi del terrazzo. Yzumi si sente persa, per l’ennesima volta, nella comprensione totale di un momento che sembra durare per sempre, come il fischio del nibbio bruno che le ha portato via il papà.

Autore

Pietro Parolin

Pietro Parolin nasce a Cittadella nel 1977, è laureato in Lettere e Filosofia e si occupa di regia e di scrittura. Tra i suoi lavori principali il film “Leoni” del 2015, alcune sceneggiature per “La Squadra”, “La Nuova Squadra” e “Chiamatemi Gio’”. Si occupa anche di pubblicità e cinema d’azienda e ha pubblicato un romanzo, “Saltaboschi”, edito da Panda Edizioni.

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